“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

domenica 27 marzo 2011

Elga



settembre 2002




Quando ho incontrato Elga, le dissi che l’avevo già conosciuta da bambina. Non sapevo allora perché le dissi questo, ma ritenevo che fosse importante dirlo, dirlo a lei, ma soprattutto dirlo a me stesso. Naturalmente non era vero, ed entrambi lo sapevamo, ma cos’è la verità? Restava che glielo dissi con convinzione. Guardandola nei suoi occhi limpidi, mi affacciavo nel fondo della sua vita, e attraverso lei, in quella di sua madre e di suo padre. Leggevo in quegli occhi la storia della sua famiglia, e mi sembrava di andare indietro di generazione in generazione finché si perdeva la memoria della sua singola origine e allora quel viso era significativo di tutta una collettività più ampia: un’umanità intera si schiudeva per me ogni volta che la guardavo negli occhi e l’ascoltavo beato mentre mi parlava della mamma, del padre e delle sorelle. La quotidianità era il suo tempo, ma nel senso più nobile e profondo. Anche il passato più remoto allora riluceva in un’aura di quotidianità affettuosa, presente. Ogni attimo nella sua vita sembrava fosse già stato vissuto e appartenere ad un mondo lontano, antico, e la splendida persona che avevo davanti a me era come il risultato di una vita ricevuta, un’eredità tramandata, attraverso altre vite, nei giorni.

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