settembre 2002
Quando ho incontrato Elga, le dissi che l’avevo già conosciuta da bambina. Non sapevo allora perché le dissi questo, ma ritenevo che fosse importante dirlo, dirlo a lei, ma soprattutto dirlo a me stesso. Naturalmente non era vero, ed entrambi lo sapevamo, ma cos’è la verità? Restava che glielo dissi con convinzione. Guardandola nei suoi occhi limpidi, mi affacciavo nel fondo della sua vita, e attraverso lei, in quella di sua madre e di suo padre. Leggevo in quegli occhi la storia della sua famiglia, e mi sembrava di andare indietro di generazione in generazione finché si perdeva la memoria della sua singola origine e allora quel viso era significativo di tutta una collettività più ampia: un’umanità intera si schiudeva per me ogni volta che la guardavo negli occhi e l’ascoltavo beato mentre mi parlava della mamma, del padre e delle sorelle. La quotidianità era il suo tempo, ma nel senso più nobile e profondo. Anche il passato più remoto allora riluceva in un’aura di quotidianità affettuosa, presente. Ogni attimo nella sua vita sembrava fosse già stato vissuto e appartenere ad un mondo lontano, antico, e la splendida persona che avevo davanti a me era come il risultato di una vita ricevuta, un’eredità tramandata, attraverso altre vite, nei giorni.
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