“Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. È privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezioni.
Uno chiude dietro a sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l’umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po’ di se stessi.
Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme – le rose e le spine, come si dice – la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d’ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.”*
È uno degli incipit più belli di tutta la letteratura, per me il più affettuoso.
“Solo i giovani hanno di questi momenti”, lo svolgimento del romanzo ci dirà quali, ma proseguendo nella lettura e arrivando alla parola “gioventù”, qualcosa si compie, una lunga pausa grava sulla scrittura, una sospensione. Il tempo si ferma, la vita si ferma, il racconto naturalmente va avanti, ma tutto è già accaduto. Nel tempo della vita, la storia si è già consumata, e quello che nel tempo della scrittura è un inizio di qualcosa, un rammemorare, nella vita non esiste ormai più, è passato, è morto, come la gioventù ignara di se stessa. E l’inizio coincide con la fine. Nella scrittura si conclude la vita.
C’era una volta la gioventù, prima ancora l’aurora dell’infanzia, la tenue luce nascente di una vita umana che illumina di speranza perfino le ombre. Penso alla luce, alle ombre colorate di Monet, di Renoir, penso al “Cuore di tenebra”, alla luce nera.
Ciò che ci rende cara la nostra infanzia, è perché è nostra, non perché è passata, non perché è ormai lontana, semplicemente perché è nostra, solo nostra…tutto il resto della nostra vita somiglierà a quella di qualcun altro, a quella di tutti, ma l’infanzia no, essa è il luogo dell’individuo, della sua solitudine e della sua grandezza, del suo smarrirsi, del suo ritrovarsi.
Nella culla il fanciullo incomincia a sognare nel momento del risveglio, quando ancora per pochi minuti rimarrà solo, presto verrà qualcuno ad occuparsi di lui, forse la mamma, forse il papà, forse qualcun altro. Il risveglio, momento di meraviglia che ripete la nascita recente…e poi il pianto. La prima linea d’ombra.
Le braccia materne hanno un profumo particolare, e il fanciullo si lascia sollevare fuori dal nido in un tenero volo. Un breve viaggio che conduce al seno, al contatto misterioso con la carne calda che nutre. Un viaggio nella penombra con la bocca e gli occhi spalancati, fame e meraviglia.
Il bambino aspetta trepidante nel letto un bacio. Il bacio della mamma che lo rassicuri, il bacio che prelude al sogno, al viaggio nella notte, nella solitudine estrema, il bacio d’amore, leggero. Che solo le mamme conoscono.
Molto tempo dopo un uomo aspetta trepidante nel letto un bacio. Il bacio della sua donna che lo rassicuri, il bacio che prelude all’amore, al viaggio nella notte, insieme a lei, nella solitudine estrema.
Nessun commento:
Posta un commento