“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

mercoledì 13 ottobre 2010

Farindola, la terra e i volti
















Il volto è un richiamo irresistibile per lo sguardo. Per quanto la bellezza del mondo si esprima in forme meravigliose e spesso incredibili, la visione del volto umano non ha confronti. I nostri occhi vi approdano, vi aderiscono. Come in un’impronta. 
È un’ellissi densa di particolari quasi microscopici in continuo divenire, e la mutevolezza non ha eguali. Nemmeno la superficie del mare, o il cielo in tempesta.
Attilio Gavini
Guardare il volto della creatura umana, significa conoscere storie che nella maggior parte dei casi sfuggono all’osservatore e allo stesso osservato, il modo meno doloroso di guardare la propria vita e la propria morte in forma di sogno.
Dino Viani


Farindola guarda la montagna, la montagna guarda Farindola, sulla montagna stanno le case, gli alberi, gli uomini, c’è un lago e una cascata e il ragazzo indicandomi la montagna mi dice, lassù c’è un lago, tu non lo vedi, ma io so che c’è, e allora ripenso ai miei album da disegno da bambino, quando disegnavo la montagna e sulla montagna c’erano gli alberi, c’erano le case, c’erano gli uomini e anche il lago.
Farindola guarda la montagna e il vecchio mi dice che lassù qualcuno ha segnalato la sua presenza con un razzo, e l’elicottero non l’ha visto e lui adesso vorrebbe avvisare la guardia forestale, mentre guarda la montagna a lungo, come io guardo il mare, senza stancarmi.
Dalla montagna scende il vecchio con la legna sulle spalle, il suo volto spiritualizzato dagli anni ricorda un santone tibetano, le sue mani sembrano gigantesche benne a riposo, la verticalità e l’orizzontalità, un connubio armonioso d’energia spirituale e forza fisica, come la montagna.
Il rapporto simbiotico dei farindolesi con la propria terra e con la montagna, ha determinato un particolare paesaggio antropologico; la mano dell’uomo sebbene sia visibile ovunque, raramente è stata devastante. 
Il paesaggio è la risultante tra lo sguardo e lo spazio, con tutti i suoi elementi e presenze, un rapporto che origina il Luogo, nella sua accezione antropologica, una proiezione ideale, che ha, tuttavia, un riscontro reale, nella terra. La terra, come Luogo, si concepisce a partire dallo sguardo. Lo sguardo converte lo spazio, lo dimensiona, e vi si pone come unità di misura. Il rapporto dell’uomo con lo spazio è fondante; da questo rapporto hanno luogo tutte quelle attività umane che creeranno l’identità di un territorio. 
Il territorio di Farindola ha subito una trasformazione radicale a partire dagli anni Cinquanta/Sessanta, anni in cui la civiltà contadina ha dovuto arrendersi alla civiltà dei consumi. La terra, a seguito dell’abbandono delle attività agricole, progressivamente, ha ripreso un aspetto “originario”. Il paesaggio antropologico, sedimentato dalla paziente opera del contadino, ha lasciato il campo al paesaggio naturale, alle sue “essenze”; essenze che originariamente hanno costituito la natura materica, fisica e biologica, del territorio, e che persistono nella terra, nelle acque, nella vegetazione, conferendo al paesaggio quel particolare tono aurale.
È interessante cogliere queste essenze, com’è importante rilevare i motivi persistenti di un paesaggio antropologico, ormai, quasi del tutto scomparso.
L’economia del mondo agricolo era basata sull’autosufficienza delle famiglie e nello sfruttamento delle risorse naturali teneva conto di questo principio: quello che viene dalla terra deve tornare alla terra. La tecnologia a disposizione del contadino prevedeva l’utilizzo e la trasformazione delle materie prime presenti nel territorio secondo una concezione “organica”, nella forma e nella funzione: un albero, abbattuto e usato come pilastro per la struttura di un fienile, conservava la sua forma, idealmente restava un albero. Basta quest’esempio per comprendere come fosse tenuto in considerazione il canone estetico.
Il concetto di bellezza era intimamente legato all’idea di semplicità e naturalezza, secondo antichi principi armonici, desunti in epoca arcaica dall’accostamento di oggetti di legno e pietra. Le forme del paesaggio condizionavano l’architettura. Si edificavano le case in modo che la loro presenza non fosse dissonante con l’ambiente naturale, la costruzione s’incastonava in un sistema visivo che teneva conto degli elementi naturali circostanti che facevano da sfondo e da quinte; un tetto spesso seguiva l’inclinazione del pendio di una montagna che si stagliava dietro la casa e gli alberi, querce e noci in particolare, affiancavano l’abitazione come un nume tutelare.
Tra i segni della costante operosità umana che hanno determinato l’estetica del paesaggio, bellissime ed espressive sono le numerose fascine e le cataste di legna, che campeggiano come pire nel mezzo dei prati o a ridosso delle querce e dei faggi. Imponenti svettano i pagliai, come monumenti arcaici, e la terra dissodata, strappata alla natura, fa da contrappunto ai prati incolti destinati al pascolo, e ai boschi cedui di faggio e roverella. 
Lo sguardo, dalla valle del Tavo sale rapido verso le vette nevose che sovrastano il paese, rimarcando l’immanenza del Gran Sasso, e si può comprendere il carattere e il destino che la montagna ha impresso alle sue genti.

Renato è sdraiato sull’erba, a fianco c’è la vecchia cagna, buona per cacciare i topi, mi dice con una punta d’ironia. Riposa e guarda la cavalla che pascola svogliatamente qua e là, Renato vuole parlare e mi parla di Dio, di questo mondo senza Dio, e dice che l’anima è come il vento. Vorrebbe darmi tutto quello che ha, mi mette tra le mani una manciata di soldi, poi vuole donarmi il tascapane che ha confezionato lui stesso, mi chiede se ho bisogno di una radiolina e fa per darmela, ed io gli dico che non ne ho bisogno, e allora mi regala un rosario fosforescente, se lo lasciassi fare mi darebbe tutto quello che ha, darebbe ogni cosa che ha in cambio di nulla.
Renato non ha bisogno di nulla.

Teodoro è venuto da Arsita tantissimi anni fa, ora è vecchio e cammina su e giù lungo la strada di San Quirico, con ogni tempo. È il genius loci della contrada, quando passo mi saluta con la mano, appoggiato al bastone guarda la montagna con nostalgia, tutt’intorno c’è la neve, ma lui indossa soltanto un gilet e una camicia di flanella.

Rocco vive in una bella casa nella contrada di San Quirico, ha un aspetto elegante e ordinato, da giovane ha girato il mondo, è stato in Brasile, ha vissuto anche a Milano, dove ha fatto il sarto in Corso Vittorio Emanuele, ora è tornato alla terra e la lavora come se fosse un taglio di stoffa, con ordine e precisione ha diviso gli appezzamenti in modo geometrico e razionale, con orgoglio mi dice che potrebbe zappare quell’orto in giacca e cravatta senza sporcarsi.

Ginevra è un bel nome, e l’anziana contadina lo porta fiera come una regina, ha quasi novant’anni e lavora ancora nei campi come una giovinetta, dopo aver zappato il suo orto è scesa al fiume a fare la legna. Tanto tempo fa, suo padre è stato in America e tornando dai suoi viaggi “ha riportato il nome”.

Luigi vive a Valle d’Angri, consumato dai dolori, se ne sta appoggiato al tavolo, chino, il volto sofferente, forse in questa posizione riesce a riposare un po’, mi racconta di quando coltivava fiori a Sanremo, ora è solo e davanti il camino mi dice che il fuoco gli fa compagnia.

Quasi tutti questi vecchi contadini hanno condiviso negli anni Cinquanta l’amara esperienza dell’emigrazione, molti sono partiti da Farindola giovanissimi, alla volta di Marcinelle, per faticare nelle miniere di carbone, qualcuno ci ha lasciato la pelle, e quelli che sono tornati raccontano aneddoti e verità taciute sulla tragedia. Molti di loro, come Luigi, sono andati a lavorare a Sanremo. Ora sono tutti qua, e ognuno mi racconta la stessa storia, la loro esperienza individuale è coincisa con l’esperienza di tutto un paese, insieme e separatamente hanno adempiuto al loro destino, uguale e diverso per tutti.

Il sole d’inverno illumina radente la terra arata, presso la catasta di legna, una vecchia canta le canzoni della sua giovinezza, il marito racconta di un tempo quando “era tutto un canto e tutti erano più contenti”, il tempo di una giovinezza perduta, “quando avevamo tutto e non lo sapevamo”. 

Ho accostato i volti di questa gente ai paesaggi, alla terra, agli alberi, alle case e al cielo, e le riflessioni che scaturiscono da queste vicinanze sono molte e mi commuovono, guardando le persone che incontro sulle montagne, in mezzo ai campi, lungo le vie delle contrade, percepisco il senso profondo della loro umanità, la bellezza. 
Il volto di un uomo rispecchia il suo paesaggio originario, una dimensione sospesa tra la terra e il cielo. I volti di queste persone hanno la freschezza della terra tenera. I loro occhi restituiscono luce e serenità, la limpidezza dell’aria che respirano. 
Oggi il volto umano è mediato in forma aberrata dallo schermo televisivo, e in televisione si vedono facce che sono sempre più filtrate, facce che devono essere funzionali, aderire a schemi prestabiliti. La “faccia media”, della persona mediamente intelligente, mediamente soddisfatta, mediamente viva.
Girando per le campagne, per fortuna, questa faccia ricorrente non si vede più, e s’incontrano finalmente i volti, le persone: persone che hanno pudore ad essere fotografate, che si vergognano, che hanno addirittura paura, che si emozionano, che si nascondono, che temono, a ragione, di essere depredate di qualcosa d’intimo, personale.
L’obiettivo della telecamera tende ad omologare il volto dell’uomo, almeno questo è il risultato delle immagini che passano in televisione. 
Ho incontrato contadini che ci tenevano ad essere fotografati per come sono e si sentono; un anziano boscaiolo, che spaccava con un solo colpo d’accetta un ceppo di un metro cubo e che portava in testa un curioso fazzoletto annodato, alla mia domanda se avesse preferito toglierlo per farsi fotografare, mi ha risposto: da quando ero ragazzo vado nei boschi con in testa un fazzoletto per proteggermi dal sole, se me lo tolgo non sono più io.
In queste persone è forte la necessità di preservare la loro diversità, un altro contadino scherzando mi chiedeva se dovesse mettere la cravatta per la fotografia, ma poi la moglie gli ha detto che i vestiti belli non l’avrebbero fatto più bello e lui era bello così, come lei lo vedeva ogni giorno, e aveva addosso soltanto cenci rattoppati e sporchi, e quando l’ho fotografato ho visto anch’io quella bellezza che vedeva la moglie, per un attimo, mentre si chiudeva l’otturatore, in un millesimo di secondo, io ho visto la sua Immagine, forse la sua anima.

Ornella faceva la maestra, è molto simpatica, elegante e dignitosa, veramente una signora d’altri tempi, mi stava mostrando le sue fotografie, quando sento dei colpi d’accetta che provenivano dal vicolo sotto la finestra. Istintivamente mi affaccio e vedo una persona anziana, intenta a spaccare la legna, assieme ad un bambino che doveva essere il nipotino...allora chiedo ad Ornella se posso andare a fotografarlo e lei mi dice, sì, quello è Luigi, una cara persona, ha un cuore grande così, ed è molto buono...allora Ornella si affaccia alla finestra e lo chiama e gli dice che c’è un fotografo che vuole fotografarlo.
Luigi mi accoglie con un sorriso largo come un campo di grano e chiama sua moglie, mi offrono il caffè che loro tengono nel termos in caldo dalla mattina presto, mi dice, noi lo facciamo così, forse a lu giuvinott’ nni je piace!...ma il caffè era squisito e caldo. Ho fatto qualche foto a Luigi, mentre lui mi raccontava della sua famiglia e dei suoi figli, poi lui ha preso per mano la moglie e come due bambini si sono messi lì per farsi fotografare insieme. Mi ha commosso come le teneva la mano.

Ho fotografato queste persone guardandole nel volto, cercando i loro occhi e il loro sguardo. Esponendomi al loro giudizio. Non il mio, ma il loro sguardo è la cosa più importante e in quegli occhi ho ravvisato la mia idea di Uomo. Cercavo una conferma a questa mia visione e l’ho avuta.
L’estetica del nostro tempo considera superata quest’attenzione per la figura e il volto, almeno secondo una certa moda rappresentativa, penso allora ad August Sander, al suo progetto “Uomini del XX secolo”, e mi chiedo se le persone che ho fotografato, secondo certe teorie, possano identificarsi con il secolo in cui stiamo vivendo, mi chiedo se quella luce che è negli occhi di un uomo ci riconduce ad un tempo più o meno determinabile o piuttosto ci restituisce una sensazione di extratemporalità, se questi occhi attraversino le ere, immutabili, pur riflettendo i cambiamenti, le trasformazioni profonde che avvengono nella realtà, o se invece sono soggetti anch’essi al divenire. 
L’Occhio accoglie la realtà manifesta che, platonicamente, è immagine e la riporta ad una dimensione umana; l’eidos, essenza del visibile, forma pura, permea la carne, materia sensibile, e la fa risplendere.
Forse, l’Occhio resta identico a se stesso, e nel fondo d’ogni sguardo persiste un segno affinché possiamo riconoscerci uomini, e ritrovare la nostra comune origine.
Il senso di questo lavoro per me è tutto in questi incontri; sulla strada, tra i campi, nei boschi, spazi desolati che sono diventati Luoghi grazie all’incontro con un uomo, come l’incontro con Remo, un vecchio boscaiolo, improvvisamente apparso tra i cespugli, come un fauno, mentre camminavo lungo un sentiero di montagna. Ho fotografato questi uomini come li ho incontrati, così come li ho veduti, cercando di restituire lo stupore, la casualità, il destino.
La montagna a guardarla dal paese è come un muro immenso, compatto, e il muro è quanto di meglio per scriverci sopra messaggi d’amore, utopie. Una volta ho letto su un muro questa frase, muri puliti, popoli muti, e forse è davvero così. La montagna è il muro immenso che ogni abitante di Farindola ha davanti ogni giorno, e ogni giorno ci scrive e ci legge qualcosa, una superficie che assorbe e riflette le emozioni, i sogni, i desideri, l’immaginario e l’immaginifico. Questa forma bidimensionale, verticale, ascendente, apparentemente chiusa, è permeabile al Tempo e all’Uomo. 
La terra e la pietra, elementi di cui sono fatti le montagne, sono il pane quotidiano dei farindolesi che faticosamente si portano nei boschi in quota dove raccolgono la legna per il fuoco. 
Una volta, mi dicono, la montagna era tutta “terrazzata” e coltivata, c’era grano dappertutto, persino a Valle d’Angri, e ulivi e viti, le contrade erano popolose e ogni casolare ospitava anche cinquanta persone.
Provo ad immaginare quel tempo, mentre ascolto questi racconti, e mi accorgo che non mi è difficile. Il passato è talmente vivo nella lingua, nelle espressioni metaforiche, che la voce dei vecchi contadini mi restituisce una percezione sinestetica. Visione o sogno non ha importanza, è importante abbandonarsi a questa sensazione univoca, assoluta, del Tempo, dei Luoghi, della Presenza, come manifestazioni ontologiche, spirituali, che lascia il campo alla commozione e alla pietà per questo nostro destino di uomini che parlano ad altri uomini. E parlando creano il mondo.
















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