… Apposta parlo di segni. Li potrei fare anche sulla carta, nel mare, ma sarebbero tutti voluti, quindi tutti falsi. A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose, per altri invece rimane una macchia.
Mario Giacomelli
Mario Giacomelli parla di segni, di segni che si incominciano a capire quando si comincia ad amarli.
Quello che manca oggi, nel lavoro degli artisti, è proprio l’amore. L’amore che ci fa toccare con dolore e verità le cose che ci circondano, che hanno il nostro stesso destino, almeno del nostro corpo.
Oggi ci si avvicina sempre più ai linguaggi artistici solo con la mente, intesa come cosciente progettualità, lucida, schematica, analitica e sintetica, pensando che la mente possa creare l’oggetto estetico. Senza sofferenza. Lasciandosi prendere dalla facilità con cui le nuove tecnologie ci danno l’illusione di saper fare qualcosa. Di creare. E creare significa produrre qualcosa dal nulla, ma questo lo fa solo Dio. L’artista non crea dal nulla, ma trasforma, trasfigura ciò che è già nel mondo, e vive nella materia. Crea in quanto trasforma una realtà che senza di lui, senza il suo sguardo (o la sua impronta) è nulla, nulla perché è vuoto d’amore. Lo sguardo dell’artista è soprattutto uno sguardo d’amore, che dà senso, calore, dignità esistenziale alle cose che sono fatte di nulla.
Quello che si vede sempre più nell’opera di questi artisti è il nulla. Il nulla inutile, sciatto, dell’incapace che crede di saper fare qualcosa anche lui...Tu citi quella fotocopia sbiadita di un’immagine di Mario Giacomelli sul muro del bar di Scanno e giustamente fai notare che è l’unica immagine che aveva un’impronta (uno stile o uno sguardo), e perciò un senso, tra le centinaia che stavano appese su quel muro. Le altre erano il nulla rispetto al tutto che comunicava quell’immagine...un’immagine dove si leggeva l’amore e la pietas che un uomo ha avuto per il proprio simile, per il mondo in cui vive, per se stesso. Di fronte al dolore e all’immensa inconoscibilità del proprio morire, Mario Giacomelli ha pensato di poter dire, utilizzando il proprio corpo in disfacimento (la sua immagine), ancora qualcosa ai suoi simili, al mondo. “Questo ricordo lo vorrei raccontare”: raccontare della propria e della nostra morte, come ha saputo raccontarci della sua e della nostra vita.
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