“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

mercoledì 13 ottobre 2010

Mandala




Mandala, 2007










Forma senza forma


Sulla porta del labirinto Icaro trova scritto:
“A Ovest si va, a Est si ritorna. Nord e Sud
non sono direzioni.”
                                            Rita Ciprelli



Un popolo spodestato della propria terra, non sarà mai spogliato della sua bandiera. Ho fatto questa riflessione mentre fotografavo due monaci tibetani che cercavano, tra qualche difficoltà, di fissare il loro stendardo sulla porta del teatro; riaffermando la propria identità nazionale e l’amore per una patria in cui molti di loro forse non potranno più tornare.
Lo stato del Tibet non esiste più da oltre cinquant’anni, ed è commovente come due piccoli monaci cercano di spiegare al vento un coloratissimo pezzo di stoffa, un lembo della propria terra.
All’interno del teatro alcuni loro fratelli si apprestano a comporre il mandala.
La bandiera è un simbolo, il mandala è l’origine e la fine di ogni simbolo.
Spiegare al vento una bandiera e comporre un mandala possono essere la stessa cosa se rimandano ad una dimensione etica, ad una coscienza civile, ad una prassi esistenziale.
La composizione del mandala parte da un centro, un’idea centrifuga e centripeta sottende ogni gesto dei monaci nel cosmo pulsante in cui essi si rappresentano. 
Nel mandala ogni istanza psichica diventa forma: in qualche modo ciò che è mentale, spirituale, tende ad essere, tangibile, nella materia. 
Nello spazio come nel tempo sedimenta la sostanza umana. Granello dopo granello lo spazio diventa luogo, il tempo diventa vita. 
La vita è rappresentata, nella sua sospensione tra nascita e morte, come un momento fulgido, come un sogno colorato. La sabbia scorre veloce nei coni d’ottone come in una clessidra. Tempus fugit, ma questo passare del tempo genera comunque una traccia. Una forma, una presenza. 
La semplicità dei monaci è disarmante. Hanno la leggerezza e la concentrazione dei bambini che disegnano con le matite colorate. Non molti, tra noi occidentali, possono accettare le loro considerazioni sulla natura impermanente della realtà, soprattutto se applicate ai beni terreni, ai piaceri irrinunciabili della società dei consumi.
Non molti accetteranno che lo stesso mandala, una volta terminato debba essere distrutto. Eppure sappiamo bene che ogni cosa che si attua nella materia non si sottrae a questo destino. 
La cultura occidentale si culla oltremodo nelle illusioni che continua a generare, incapace di fare mente locale, di fissarsi alla realtà, si allontana da questa. La vita allora ci sfugge, si disperde al vento come la manciata di sabbia che il monaco offre al mare e alla notte.
Il mandala è stato distrutto, forme e simboli cancellati, resta un mucchietto di polvere grigia. Miliardi di granelli di sabbia variopinta confondendosi hanno generato il grigio, colore non colore. 
La platea occidentale è raggelata. L’illusione è svanita, resta la realtà. Impermanente. Implacabile.



















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