“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

domenica 5 dicembre 2010

Il caffè squisito

Rita Ciprelli



Il caffè squisito.

...Una tazzina fine avanti 
a me
e il mio caffè squisito caldo
come questo sole d’inverno.
Rita Ciprelli
«Il Fato, il Karma, il destino, è l’alchimia genetica dell’ereditarietà, contro la quale non esiste libertà. La predestinazione alla Grazia o alla condanna, avviene per caso, in modo assolutamente originale e imprevedibile, descrivibile – in parte – solo a posteriori. C’è da fare pochissimo; in certi casi sfortunati niente».
Per chi ha conosciuto Rita Ciprelli queste parole hanno un sapore particolarmente amaro. Chi ha vissuto accanto a lei i momenti della sua malattia, fino alla più inaccettabile delle agonie – se mai sia possibile accettare lo strazio e l’orrore che un misero corpo umano deve attraversare per abbandonare questo mondo –: i suoi amici più cari, possono capire quanto queste parole fossero dettate da una consapevolezza estrema del proprio ineluttabile destino.
Un destino di sofferenza, segnato da una lacerazione insanabile: quella particolare percezione della morte che rivendica il suo “spazio”, ontologico, come luogo dello spirito e òntico, nella nostra esistenza quotidiana. Ogni giorno. E ogni giorno che passa allontana l’individuo dalla vita e dai luoghi in cui questa si compie; il mondo.
Quel destino di morte che coincide con l’esistenza della poesia, dei poeti: – Se il poeta è un dio, è solo un dio dei morti –.
Rita Ciprelli è nata poetessa, suo malgrado: – Il poeta è pronto, magari senza saperlo, a dar via tutta la sua arte in cambio della viva felicità animale, ma ne è impedito. Dalle circostanze che hanno formato il suo destino. Cerca allora di riafferrare la vita, di conquistare l’amore dell’altro, di comunicare e sedurre coi mezzi della propria arte: il suo linguaggio, il suo comportamento estetico. È un tentativo vano e sempre ne piangerà. Soffrendo la lacerazione sul proprio corpo, conserverà solo la testa, e la bocca, per il canto –.
Il poeta ha piena consapevolezza che il suo posto non è nel mondo, ma «fra le stelle, nel cielo notturno», e per questo susciterà sempre l’invidia cieca, «il rancore di chi vive», di chi è nel mondo.
Ma egli è capace d’amore, di pietas, ed è con uno sguardo d’amore che guarda i suoi detrattori.
Con la stessa compassione il poeta guarda la morte.
«La morte vuole il suo spazio, questa è la spiritualità» e ancora «La spiritualità è la coscienza della morte». Chi ha conosciuto Rita sa che queste parole non sono state scritte semplicemente per il gusto dell’aforisma, della frase “scolpita”, ad effetto.  Chi ha conosciuto Rita sa che ogni sua parola, detta o scritta, era intensamente provata, mediata dalla sua esistenza: il suo tributo quotidiano alla morte. Ma come accade ad ogni creatura “investita dalla morte”, fortissima era in lei l’aspirazione alla bellezza e alla gioia.
La sua vita è stata lunghissima perché vissuta con passione; mezzo secolo è tanto, mi diceva gli ultimi giorni con un filo di voce, e capivo che per lei la rassegnazione non era una sconfitta, ma il senso profondo di una perdita che non è mai una perdita. La relatività perfino della morte: – Vega, la stella bellissima, che sembra un diamante in mezzo al cielo. Di fronte a lei, che importanza ha morire o non morire? –.
Ho trovato questi appunti, tra i suoi libri, scritti a mano su due minuscoli taccuini, la grafia minuta e infantile, perché voleva farsi capire.
In ospedale mi aveva detto, tu sai dove sono le mie cose, valle a prendere!
Si metteva nelle mie mani, mi affidava il suo immenso lavoro di scrittura, tutta la sua vita. Continuate voi, mi ha detto e si riferiva al nostro gruppo Stimmung, a Dino, ad Attilio, ad Armando.
Scorrendo questi appunti mi sono accorto che già mi appartenevano, da sempre, poiché essi sono il succo dei nostri dialoghi quotidiani, dei nostri caffè affettuosi, subito dopo pranzo, in quella Casa di Dedalo, infinita, nei Paradisi del bianco, del nero, della luce; delle nostre passeggiate per la città deserta all’ora panica, «le due/due e mezzo, tre». Sognando il sole della Grecia di Omero, andavamo incontro alle visioni, alle teofanie metropolitane: l’apparizione improvvisa di un albero in piena fioritura, la figura malinconica e un po’ arruffata di un clochard, accompagnato dai cani randagi era il dio Pan, e tornando a casa dopo «il caffè squisito», la brocca d’acqua scintillante sul tavolo, in controluce, davanti la finestra era la palude primordiale in cui ha avuto origine la vita.
Le parole, così amate e dalle quali si sentiva ricambiata, mai tradita. Le parole mi amano, diceva con vezzo d’adolescente corteggiata.
E il silenzio, forse più amato ancora.
Quattro anni dopo la sua morte, ritrovare questi appunti è stato come sentire ancora la sua voce. Riconoscere il suo rigore estremo, pagato con la vita, riga dopo riga: – La spiritualità è dittatoriale, assertiva, violenta (…) non vuole mezze misure, centrismi, aggiustamenti, compromessi. Tutte cose che appartengono alla vita materiale, alla pratica, non allo spirito –. Il suo disinganno: – Ricordati bene. Tutto ciò che non succede è sempre meglio di tutto ciò che succede –. L’amore per la gente semplice, che alimentava la fede in un’ideologia duramente provata dall’indifferenza e dal qualunquismo morale dei politici della sinistra. La sua sinistra, alla quale non avrebbe mai abdicato: – La sinistra è il sentimento del piccolo paese povero della nostra infanzia. È il dialetto dei vecchi, della mamma, le favole e i racconti. È il latte bevuto vicino al caminetto, la neve sui tetti la mattina di Natale, il presepe. La necessità. La povera amministrazione di quei pochi soldi al mese, le raccomandazioni della mamma e del padre di non fare sprechi, i sacrifici fatti per studiare fuori casa. L’amore vivo per le zolle di terra al tempo della semina, la curiosità di noi bambini per i muratori che costruivano una casa, per l’armeggiare del meccanico sotto un’automobile, la schedina al sabato e l’emigrante che tornava a casa per qualche volta, d’estate –. Come si fa a ripudiare tutto questo? – È un modo di essere, sono tutti i nostri ricordi. Come si fa a lasciarla, anche se i suoi politici ci hanno derubato, ci hanno tutti misconosciuti, imbrogliati, definiti intellettuali del cazzo? Loro con la nostra sinistra non c’entrano niente. 
La sinistra c’è, ma è quella nostra, la sinistra del cuore –.
Per la gente semplice, Rita ha avuto le parole più belle, l’affetto più sincero.
L’amore più grande, forse l’unico, è stato un ragazzo che faceva l’operaio. Molti dei suoi conoscenti se ne stupivano. Agli amici che si erano chiesti, forse un po’ scandalizzati, quale dialogo ci potesse essere con una persona di condizione culturale molto diversa dalla sua, Rita ha risposto da poeta: – L’amore non necessita di dialogo, ha bisogno soltanto di parole –.
Rita è morta una mattina di primavera, nella più completa solitudine, gli amici che le sono stati vicino tutto il tempo della sua malattia, quel giorno non l’hanno veduta.
Ha lasciato un’eredità morale e umana grandissima, ma gli amici ricordano soprattutto la sua levità e la sua bellezza dimessa, sottovoce, la sua involontaria comicità, l’allure un po’ impacciata, ma tenerissima, che hanno solo le persone «predestinate alla Grazia», segnate da quella diversità che procura le “stimmate” della Poesia.
Mentre sto scrivendo queste righe, ha inaspettatamente cominciato a nevicare ed io non posso fare a meno di ricordare il suo amore per la neve, e il presepe che faceva ogni anno, con la farina che imitava la neve.
È tempo che concluda questo mio divagare, ma voglio farlo con un ultimo aforisma di Rita, che esprime, a mio avviso, una verità, una delle tante che condividevo con lei: la verità del sembiante, dell’apparire indistinto; il baluginare della nostra vita nella penombra dell’essere, come quando stiamo ancora sognando, appena prima del risveglio, o anche adesso, mentre guardo questa neve fuori tempo che cade e spolvera di farina il geranio intirizzito nel vaso sul davanzale. «Si amava un’apparenza ingannevole, un’analogia».














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