Io e zio Enzo, 1962 |
La sera aspettavo con trepidazione il momento in cui lo zio Enzo, dopo aver cenato frettolosamente, tirava fuori la cassetta dei colori ad olio e la grande tela che durante il giorno riposava sull’armadio.
Ogni giorno c’era dipinto un albero in più, una casetta nuova, la cima di un’altra montagna. A poco a poco un paesaggio possibile incominciava a risplendere della sua luce sulla superficie di quella tela che a me sembrava gigantesca, un paesaggio luminoso e odoroso, fatto di colore pastoso come il cioccolato e la crema che la zia metteva nella torta del compleanno.
Non potevo mangiare il colore, ma potevo toccarlo e annusarlo e la cosa mi riempiva di gioia.
Le pennellate dello zio erano lente e minuziose, aveva un modo di dipingere da miniaturista e per finire un quadro impiegava mesi. Non dipingeva molti quadri, andava a periodi, stava anche tantissimi mesi senza toccare i pennelli ed io cercavo sempre di invogliarlo a dipingere.
Ogni nuovo quadro per me era un sogno ad occhi aperti che si andava definendo di giorno in giorno, fino a diventare realtà nel momento in cui lo zio dava l’ultimo tocco di pennello.
Il sentiero tra i campi, era ormai praticabile, Un po’ alla volta l’avevo visto srotolarsi sinuoso dal fondo bianco della tela, un giorno erano spuntati perfino dei papaveri, e l’erba era diventata più verde. Immaginavo di correre per quella stradina nella direzione delle montagne appuntite che si stagliavano lontane, nello spazio virtuale della tela.
Quello spazio mi sembrava sterminato, e potevo abitarlo tutto con la mia immaginazione, e la cosa mi procurava un piacere indescrivibile. Ma molto più intenso era il piacere che mi dava il profumo dei colori.
Tutta la casa odorava di colore vivo e dentro di me cresceva sempre più forte l’amore per la pittura.
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