“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

venerdì 4 febbraio 2011

Il senso delle cose

la sveglia di mio nonno, anni 80



Un giorno, mentre facevo una passeggiata per i campi con mio nonno – avevo appena compiuto sette anni e superato una grave malattia – ci avvicinammo al campanile del villaggio di Bischofsdhron. In modo sempre più chiaro potevamo riconoscere l’iscrizione sotto l’orologio del campanile, che dovetti leggere a mio nonno: 


                                   UNA DI QUESTE SARÀ TUA.

Che significava questa frase enigmatica? Dalla sua collocazione sotto l’orologio era da intendere che si riferiva all’ora della morte, che per ognuno un giorno sarebbe stata indicata sul quadrante. "L’orologio guarda verso il futuro", diceva mio nonno, "esso sa che tutto ciò che accade nel mondo ha la sua ora." Questa esperienza io la custodii nel fondo della mia anima, perché ero il figlio di un orologiaio. La casa dei miei genitori era stipata di orologi. In tutte le stanze si sentiva il ticchettio di centinaia di orologi. In molteplici ritmi e interferenze era scandito il tempo che trascorrevo nella casa dei miei genitori nello Hunsrück.

Cominciai a riflettere sull’orologio. Quando osservavo molto attentamente le lancette mi sembrava che stessero ferme. Il tempo si arrestava solo perché io guardavo in modo così preciso? Verificai il fenomeno in altri campi. Provai a vedere come cresce un bambino o un cespo d’insalata in giardino. Anche in quel caso il tempo si fermava non appena guardavo. Nessuno era in grado di vedere come un panino diventa raffermo o un capello grigio. Io potevo vedere solo i movimenti più veloci: come la gente va in giro, come le auto viaggiano, come le nuvole avanzano. Ma quelli velocissimi, come ad esempio il passaggio di un proiettile, ancora una volta non ero capace di vederli. Scoprii che non possiamo vedere neanche il tempo stesso. Lo possiamo un po’ avvertire, ma anche questo dipende molto dalle nostre condizioni e non è certo. Il tempo è invisibile, invisibile come la vita stessa. Forse tempo e vita sono la stessa medesima cosa, pensavo. "Quando nasciamo entriamo nel tempo, e la morte è quando lo lasciamo?" Mi rattristai nei miei pensieri: "Ma il presente cos’è davvero? Noi ci lasciamo dietro ogni secondo di ciò che chiamiamo il presente. Tutto ciò che tocchiamo, che vediamo, che amiamo e desideriamo viene divorato in ogni istante dal flusso del tempo. Ciò mi rendeva triste. Un ininterrotto accomiatarsi, l’incessante morte a rate. Le ore sul grande quadrante dell’orologio del campanile della chiesa di Bischofsdhron significavano per me, il bambino di sette anni, la somma di tutte le ore della morte.

In età adulta non si osa più porre domande così capitali come quelle che facevo a mio nonno: "Cos’è la vita?" Ma persino a questa domanda enorme lui in quei giorni mi diede una risposta che mi sono fissato nella memoria: "La vita è una storia. Si devono raccontare storie, allora la gente sente la vita. Gli istanti, che fuggono sempre via, rimangono insieme in una storia. E quando uno compare in una storia allora il tempo non gli può più nuocere."


Edgar Reitz

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