“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

sabato 26 febbraio 2011

La retorica della tragedia, l'etica del silenzio








ad Attilio

A maggio c’era già una gran voglia che finissero le scuole. In casa gli scuri rimanevano socchiusi, perché il sole era troppo forte e accecava. Una fessura incandescente attraversava la penombra della stanza. Sul filo di quella luce arrivavano i rumori da fuori e si poteva immaginare quello che stava accadendo in strada.”
Sono parole scritte da Ermanno Olmi ad incipit di un romanzo autobiografico intitolato “Ragazzo della Bovisa”
Dino raccontava, anche lui, di un filo di luce che entrava dal muro del caminetto nella vecchia casa e creava l’immaginario. Il destino degli uomini di Cinema, come dei fotografi, si compie nell’epifania della luce che li accomuna prima ancora d’ogni altra cosa.
L’esperienza profonda della luce definisce il cammino esistenziale d’ogni artista visivo, le sue scelte estetiche, stilistiche, ma anche etiche e morali. Nel Cinema (come nella Fotografia) ci sono autori che piegano il corso della luce secondo le loro esigenze espressive, usano il raggio di luce come fosse un pennello per delineare i tratti di una scena, di un’inquadratura. Nel Cinema esiste la figura professionale del direttore della Fotografia che si preoccupa di ricreare artificialmente l’inquadratura secondo la luce.
Nella Fotografia da studio avviene lo stesso, il fotografo mediante riflettori e spot ricrea una suggestione luminosa, costruisce la sua immagine. Questa è in sostanza la fiction, almeno dal punto di vista dell’inquadratura e della luce. Una finzione. All’origine del Cinema e della Fotografia, c’è un atto di finzione.
Anche Mario Giacomelli, spesso, costruiva la sua fotografia come preparasse una scena teatrale, utilizzando gli oggetti più impensabili (animali impagliati, manichini) secondo accostamenti improbabili, a volte fastidiosi, a volte stucchevoli, ma questo non significa niente, e fa parte di quel lato imperscrutabile della poetica d’ogni artista.
Quello che si è dentro, quello che si è oggi rispetto a ieri, non necessariamente deve passare attraverso la “rabbia” o il gesto “graffiante”, la parola “gridata”. Ogni artista ha la sua Forma, ed Ungaretti è diverso da Quasimodo, o da Montale. Olmi, forse come dici tu, ha perso un po’ di tono, raggiungendo una saggezza che può perfino infastidire, ma questo non è una colpa. E se il suo Cinema risente “negativamente” di questa saggezza, beh, oggi preferisco questa saggezza, in tutta la sua inattuale passività.
Ognuno di noi, ogni giorno, vede sprofondare il mondo che ha amato. La sofferenza è grande e ci consuma, ci modifica nel profondo, ci fa gridare di rabbia, ma cosa facciamo? Cosa possiamo fare per impedire tutto questo? È già tanto se riusciamo a preservare i nostri dubbi, a resistere senza sgomitare goffamente, come su un tram affollato cercando l’uscita, per sottrarsi ad ogni ulteriore contatto con questi nuovi barbari che sono gli esseri umani.
Sembra assurdo, ma quello che oggi rischia di più l’omologazione è proprio l’artista, sensibile come mai ai soldi e al successo. La nuova maniera è in agguato, e si serve di un linguaggio a toni “graffianti”, nuovo slang metropolitano, disarticolato, invadente, corrosivo come acido muriatico svaporato, sostanzialmente annacquato.
Tutti noi abbiamo assistito a qualcosa di triste in occasione del recente terremoto, a come la shock economy abbia approfittato del dolore e della morte degli uomini per incrementare i profitti.
Le leggi della shock enonomy impongono che si debba strumentalizzare perfino la morte, e così puntualmente è stato: dopo qualche ora dal disastro, quanto ancora non se ne conosceva l’entità della perdita in termini di vite umane, e quindi di dolore e sofferenze, qualcuno già paventava le new towns. Un’assurda e inopportuna ragion pratica già si era messa in moto per trovare la possibilità di trarre vantaggi per il Sistema.
Alla retorica della tragedia non è stato possibile opporre l’etica del silenzio, come pure hanno fatto i nostri poeti durante la seconda guerra mondiale…ricordate Quasimodo?…

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?…

Quello che noi siamo dentro (“in quella cinghia di cuoio che trattiene, a volte, la forma etica umana”) lo percepisco nell’incontro quotidiano con le persone semplici e pure prima ancora che con l’arte e con la velleità di sentirsi un artista.
La semplice parola umana, il dialogo, casuale, banale se vogliamo, il sorriso che ancora resiste sulle labbra delle persone, sono motivi perenni di riflessione, di stupore. Questo avrebbe dovuto essere la politica. Di questo oggi c’è necessità.

(aprile 2009)

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