“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

venerdì 18 febbraio 2011

Rondò in la minore







Rondò in la minore

Quelle prime cinque battute del Rondò in la minore KV 511 di Wolfgang Amadeus Mozart mi hanno sempre turbato. 
Ero un ragazzo quando scrissi su un diario queste parole: il Rondò in la minore è una musica adatta all’agonia di una giornata. 
Ho ritrovato quel diario e leggo cose che mi fanno trasalire. 
Gli scritti della prima adolescenza svelano il loro significato più profondo solo dopo molto tempo, sono passati tanti anni e forse adesso posso capire quello che ho scritto allora.
Prendevo lezioni di pianoforte, sopperivo con l’entusiasmo alla grave mancanza tecnica, studiavo in maniera morbosa cercando di sondare l’anima del compositore, ascoltavo i dischi leggendo gli spartiti per quattro, cinque ore di seguito. Soffrivo.
La musica è qualcosa che fa male dentro la carne, come la bellezza di una donna. 
La bella musica è più crudele della donna che si desidera. E non ha pietà di un ragazzino che si consuma per svelare il mistero doloroso di quei suoni, di quelle poche note, di quelle strazianti cinque battute. 
La tonalità in la minore ha qualcosa che dispone alla malinconia. Un sentimento piacevole, forse masochista, ideale per un ragazzino incline alla solitudine e al sogno. 
Colmare un’assenza con l’Assenza. Una percezione cosmica, che addolcisce quella piccola sofferenza individuale. 
La malinconica, dolorosa, contemplazione della fine.
Il dolore di un giorno che muore, una bella giornata che sta passando, sta morendo. 
Il mi leggero e deciso, poi una delicata terzina fiorisce sul re diesis, accarezza ancora il mi, e poi il fa, ripassa sul mi, torna con un leggerissimo ritardo sul re diesis, riposa un po’ sul mi e finalmente chiude sul la.
Sì è la fine. Una fine che sta iniziando, un inizio che sta finendo. Nell’incipit di un’opera è impresso il suo destino. Il brano continua. Riprende il la che si appoggia al si bemolle e poi scivola sul si naturale, di seguito sul do, si arrampica sul do diesis, scende sul re, risale sul re diesis, poi sul mi e, dopo una lunga sospensione, si perde sul la
Poi il ritorno, una breve scala discendente fino al sol diesis
La frase si chiude su se stessa come fanno i fiori sul far della sera. 
Tutto deve ancora cominciare, eppure tutto è già finito.
Il sole si va spegnendo oltre quelle case, e la stanza ormai è avvolta dalla notte. Io dormo con lo spartito tra le mani, e il disco sta girando muto sopra il piatto. 
È l’agonia di un giorno d’estate degli anni Settanta. 

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