“C’è il senso di una pienezza ed intensità nella formazione delle immagini di Paolo Dell’Elce, c’è un bisogno espressivo di significati dove ha voce il silenzio che continua anche dopo l’ultimo segno, dopo l’ultima luce, l’ultimo albero grigio.

Il soggetto innocente sente lo sguardo su di sé, si presta alla messa in scena, entra nel tessuto del linguaggio, diventa costruzione visiva, luogo dell’evocazione, suono ed eco di una tensione interiore vivificata, che appartiene alla ragione stessa della sua vita, per dare durata all’indicibile, all’evento poetico che investe la sua coscienza portando la tensione verso la totalità.”

Mario Giacomelli

giovedì 17 febbraio 2011

Ulisse senza Penelope

mare anni Settanta

Una volta la madre di una mia compagna di classe vedendo questa foto mi disse: " Quest'albero solo sei tu..."
Ripenso spesso alle parole di quella donna, ero poco più che un ragazzo, ma lei aveva già capito tutto di me e della mia vita, e di quanto coincidesse con la mia Fotografia.



Ulisse senza Penelope

La posa del caffè scivola lentamente dalla tazzina capovolta e si raccoglie sul piattino originando misteriose visioni. Una barca antica persa nel mare immenso, e tu che spingi i remi, faticosamente. Una barca che potrebbe andare a motore, ma tu ignori quest’opportunità e preferisci navigare a remi, solo, ostinatamente solo. Ulisse senza Penelope prosegui come un eremita il tuo viaggio nella vita. 
Maia è immersa nelle sue visioni e parla come in trance…un flusso di parole che mi toccano nel profondo perché sono vere, assolutamente vere. Descrivono perfettamente la mia situazione attuale, la mia ostinazione a perseguire strade impossibili. A lottare contro me stesso, ma soprattutto a non cercare soluzioni. A rinunciare.
Come sono cambiato. Sono qui che tiro le somme, faccio i bilanci. Da ragazzo mi leggevano le carte e mi prospettavano una vita avventurosa, piena di cose. Devo averla avuta, allora, sicuramente l’ho avuta anche se non me ne sono accorto, nel viverla era tutto normale, e adesso la vedo alle mie spalle, compatta, fino al mio primo giorno. 
Maia vede le mie lacrime, rigagnoli scuri sulla ceramica liscia. Hai versato molte lacrime, dolorose. Chi non le ha versate? Penso tra me.
Maia continua, guarda dentro la tazzina e vede il mio volto, le mie rughe di bambino invecchiato. Ti sei ripiegato su te stesso, mi dice, e adesso non riesci a risollevarti. Mi vedo come un feto abbandonato, come non mi sono mai visto. È curioso come dopo aver vissuto una vita ci si veda finalmente come si è stati all’origine. Come siamo stati tutti.
Capisci di aver vissuto il dolore fino all’indifferenza per se stessi e alla tenerezza per gli altri.
Capisci che puoi rinunciare facilmente a tante cose ormai, perfino a vivere. 
Rivolgo la mia attenzione alla gioventù, guardo i volti luminosi dei bambini, la gioia viva dei ragazzi che si abbracciano e si baciano per strada, le loro risate, la loro spensieratezza, e mi torna in mente un episodio di tanto tempo fa. Contemplavo affascinato un gattino di poche settimane che giocava felice nel cortile, assieme ai suoi fratelli, il micetto tigrato era il più allegro della cucciolata, giocava a rincorrere i suoi fratelli e a prenderli per la coda.Vedevo i suoi occhietti pieni della gioia fisica, dell’emozione intensa che gli procurava il gioco. Nella foga della corsa ad un tratto il gattino sconfinò nella strada, proprio mentre stava passando un motorino con due ragazzi che, spensierati anche loro, correvano verso il mare. Quella creatura era troppo felice. Credo che non si sia accorta di morire. Lo vedo ancora caldo e morbido con gli occhietti gioiosi, lucidi, che ancora mi sorridono.
Vorrei ricominciare da capo, ma quello che ho visto nella mia vita non me lo permette...è un carico troppo pesante per chi naviga con una barca a remi.


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